L'obiettivo principale della visita era quello di analizzare la nuova politica delle autorità italiane che consiste nell’intercettazione in mare e rinvio, in Libia o in altri Stati non europei, di imbarcazioni di migranti che giungono sulle coste meridionali italiane (comunemente chiamata politica di "respingimento"). In tale contesto, la delegazione che ha effettuato la visita si è concentrata sulle operazioni di respingimento che hanno avuto luogo tra maggio e fine luglio 2009, e ha esaminato le misure di salvaguardia adottate per assicurare che nessun migrante venga inviato in un paese in cui vi siano fondati motivi di credere che esso corra il rischio reale di essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti. La delegazione ha inoltre considerato il trattamento ricevuto dai migranti nel periodo in cui sono stati privati della loro libertà da parte delle autorità italiane nel corso di tali operazioni.
Nel suo rapporto, il CPT sostiene che, nella sua forma attuale, la politica italiana consistente nell’intercettare migranti in mare e nel costringerli a tornare in Libia o in altri paesi non europei, rappresenta una violazione del principio di non-respingimento. Il Comitato sottolinea che l'Italia è vincolata al principio di non-respingimento indipendentemente dal luogo in cui essa eserciti la sua giurisdizione, il che non esclude l’esercizio della stessa attraverso il proprio personale e le navi coinvolte nella protezione dei confini o nel soccorso in mare, anche quando operino al di fuori delle acque territoriali. Inoltre, tutte le persone che rientrano sotto la giurisdizione dell’Italia dovrebbero poter avere la possibilità di richiedere la protezione internazionale e di fruire delle strutture necessarie. Secondo le informazioni a disposizione del CPT, durante il periodo preso in esame, le autorità italiane non hanno offerto ai migranti intercettati in mare tali possibilità e strutture. Al contrario, alle persone rinviate in Libia nel quadro delle operazioni condotte da maggio a luglio 2009, è stato negato il diritto di ottenere una valutazione individuale del proprio caso, nonché un accesso effettivo al sistema di protezione dei rifugiati.
Secondo quanto emerso dal rapporto, la Libia non può essere considerato un paese sicuro in termini di diritti umani e di diritti dei rifugiati. La situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresi i migranti – i quali corrono inoltre il rischio di essere espulsi in altri paesi – indica che coloro che sono rinviati verso la Libia rischiano di essere vittime di maltrattamenti.
Nella replica al rapporto, le autorità italiane descrivono le operazioni di cui sopra come "rinvio di migranti intercettati in acque internazionali, su richiesta di Algeria e Libia", nonché operazioni di ricerca e salvataggio. Le autorità indicano che nel corso di queste operazioni, durante il periodo esaminato dal CPT, nessun migrante, una volta a bordo di una nave italiana, ha espresso l’intenzione di presentare richiesta di asilo. Le autorità indicano, inoltre, la presenza a bordo delle navi italiane di personale di lingua francese e inglese, al fine di fornire ai migranti informazioni pertinenti in caso di richiesta d’asilo. Qualora tale richiesta venga espressa, il migrante viene portato sulla terraferma. Il Governo italiano aggiunge che la Libia è vincolata dalle convenzioni internazionali che le impongono di rispettare i diritti umani, e che il paese ha ratificato la Convenzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei rifugiati in Africa, in base alla quale è tenuto a proteggere tutte le persone che sono perseguitate e che provengono da "aree a rischio". Le autorità italiane hanno inoltre menzionato l'esistenza di un ufficio dell'UNHCR in Libia in grado di soddisfare le esigenze di tutela delle persone rinviate.
Il rapporto del CPT e la risposta del Governo italiano sono disponibili sul sito Internet del Comitato (http://www.cpt.coe.int).