Indietro La lotta alla violenza contro le donne deve diventare una priorità assoluta

Human Rights Comment
La violenza contro le donne - copyright Shutterstock

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Entra in vigore oggi la Convenzione di Istanbul, il trattato del Consiglio d’Europa su prevenzione e lotta della violenza contro le donne e la violenza domestica.

Il momento non sarebbe potuto essere più opportuno. La violenza contro le donne continua ad essere una delle più diffuse violazioni dei diritti umani, commessa quotidianamente in Europa; la violenza perpetrata dal partner figura tuttora tra le principali cause di morte non accidentale, lesioni e invalidità delle donne. Questa tragica situazione deriva da molteplici ragioni sociali, economiche e culturali, ma una condizione di fondo comune è la lampante disparità fra uomini e donne. La Convenzione è potenzialmente in grado di diventare un fattore trainante di progresso su questa pressante questione di diritti umani.

Esaminando i dati disponibili riusciamo a cogliere meglio l’urgenza della situazione. Si stima che ogni giorno in Europa almeno dodici donne siano uccise dalla violenza di genere. Nel 2013, le statistiche disponibili hanno evidenziato che la violenza domestica è costata la vita a 121 donne in Francia, 134 in Italia, 37 in Portogallo, 54 in Spagna e 143 nel Regno Unito. In Azerbaigian 83 donne sono state uccise e 98 si sono suicidate a seguito di casi di violenza domestica, mentre i dati raccolti dai media in Turchia mostrano che l’anno scorso almeno 214 donne sono state uccise da uomini, soprattutto a causa della violenza domestica e spesso nonostante queste donne avessero chiesto protezione alle autorità. I dati disponibili relativi ai primi sei mesi del 2014 per molti paesi europei seguitano a esibire tali cifre allarmanti.

Un recente studio delle Nazioni Unite indica che in Europa la violenza domestica mortale rappresenta quasi il 28% di tutti gli omicidi intenzionali commessi. Le donne sono più esposte degli uomini all’uccisione da parte di persone a loro vicine: mentre la violenza domestica o connessa alla famiglia è responsabile del 18% di tutte le vittime di omicidio di sesso maschile, tale cifra sale al 55% nel caso delle donne. Le percentuali variano da paese a paese, ma il fenomeno è presente in tutta l’Europa, che vede l’89% delle donne uccise in Albania cadere vittima del partner o di un familiare, l’80% in Svezia e il 74% in Finlandia. Se guardiamo alla violenza domestica non mortale, il quadro è altrettanto cupo: in Ucraina, ad esempio, nel 2013 sono stati registrati 160.000 casi di violenza domestica e da un’indagine è emerso che il 68% delle donne ha subito maltrattamenti in famiglia. In Irlanda, nel 2012 sono stati registrati quasi 15.000 casi di violenza domestica.

La violenza contro le donne non si limita ai rapporti di coppia e familiari – fatto questo ampiamente riconosciuto dalla Convenzione di Istanbul, che affronta anche le forme di violenza di genere come lo stalking, le molestie sessuali, la violenza sessuale e lo stupro. Come dimostrato da un’indagine rappresentativa pubblicata lo scorso marzo dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea (FRA), a partire dai quindici anni d’età una donna su cinque (il 22%) ha subito violenze fisiche da una persona diversa dal proprio compagno. Per quanto riguarda lo stalking, che oggi comprende anche il cyber-stalking, nell’UE a 28 il 18% delle donne dai quindici anni in avanti ne è stato vittima, e il 5% delle donne lo ha subito nei dodici mesi precedenti il sondaggio. Ciò corrisponde, nell’UE a 28, a circa nove milioni di donne vittime di stalking nell’arco di dodici mesi. Nell’UE Il 45% delle donne è stato oggetto di molestie sessuali almeno una volta durante la propria vita.

L’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul è da salutare anche perché contribuirà a porre fine ai matrimoni forzati, alle mutilazioni genitali femminili e all’aborto e sterilizzazione forzati. L’Europa non è esente da queste forme di violenza: nella sua Risoluzione 2012, il Parlamento europeo stima che nell’Unione europea vivano circa cinquecentomila donne e bambine vittime di mutilazioni genitali, mentre ogni anno altre 180.000 rischiano di subire tale pratica.

Queste cifre, per quanto enormi, sono solo stime per difetto, perché le donne tendono a omettere di denunciare i casi di violenza, soprattutto per scarsa fiducia negli organi preposti all’applicazione della legge. Il che è comprensibile, poiché troppo spesso le istituzioni dello Stato non hanno dato alcun riscontro alle donne che hanno trovato il coraggio di denunciare. Come mostra la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non soltanto gli Stati spesso non riescono a proteggerli, ma mancano anche al loro obbligo di indagare debitamente i casi di violenza di genere, fornire rimedi efficaci e prendere provvedimenti atti a prevenire ulteriori violenze. Tale inadempienza è bene illustrata da un caso recente in cui un tribunale nazionale ha ingiunto allo Stato francese di versare un risarcimento alla famiglia di una giovane donna uccisa dal suo ex compagno perché la “inadempienza colposa e reiterata da parte della gendarmeria [costituiva] negligenza grave direttamente e indiscutibilmente collegata all’omicidio”.

Questa mancanza di sensibilità nei confronti delle vittime all’interno delle forze dell’ordine pone in evidenza l’abbandono delle donne vittime di violenza da parte degli Stati. Un recente studio analitico realizzato dal Consiglio d’Europa dimostra che, anche se in 44 dei suoi 47 Stati membri alla polizia è fornita una formazione professionale iniziale sulla violenza contro le donne, solo 29 di essi offrono ai loro funzionari di polizia una formazione specifica addizionale. Tale mancanza di formazione può essere uno dei motivi delle modeste prestazioni delle polizie di diversi paesi nel rapportarsi alle vittime di violenza domestica. Da alcuni rapporti emerge che talvolta gli agenti di polizia hanno cercato di convincere le donne a non sporgere denuncia. In altri casi, il comportamento degli agenti ha palesato sia disprezzo per la dignità umana, sia il loro senso d’impunità. Un esempio eloquente è quanto accaduto nel Regno Unito, dove due agenti di polizia hanno pesantemente offeso una diciannovenne che intendeva presentare una denuncia per violenza domestica. Il caso ha suscitato l’indignazione generale e la condanna politica, e gli agenti sono adesso sotto inchiesta. Il danno, però, rimane, e la polizia ha inviato alle donne un segnale infelice. Inoltre, da una relazione si evince che l’inerzia della polizia nei confronti delle vittime di violenza domestica nel Regno Unito è tutt’altro che confinata a questo singolo caso.

Questa mancanza di reattività è ulteriormente aggravata dall’inadeguatezza del sostegno alle vittime. I posti nelle case rifugio per donne sono largamente insufficienti e le misure di austerità adottate in molti paesi li hanno ulteriormente ridotti, aumentando così la vulnerabilità delle donne. In Svezia, le statistiche mostrano che al 60% delle donne vittime di abusi viene negato un posto nelle case rifugio. Anche nel Regno Unito i tagli ai finanziamenti rischiano di esporre migliaia di vittime a casi nuovi o reiterati di violenza.

La riduzione delle risorse si traduce anche in maggiori minacce alla salute delle donne vittime di violenza. Come ha ammonito l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), “la violenza ha tutta una serie di ripercussioni fisiche negative, anche sulla salute sessuale e riproduttiva, e sulla salute mentale di donne e ragazze”. Questa documentata valutazione ha indotto gli Stati membri dell’OMS ad adottare nel maggio scorso una risoluzione volta a rafforzare la risposta dei sistemi sanitari alla violenza contro le donne.

Da tutte queste prove emerge la necessità di un’azione pubblica più risoluta nella lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica dal punto di vista della vittima. Nel venire incontro a tale esigenza, la Convenzione di Istanbul fornisce un insieme esaustivo di misure per intervenire dove è necessario e, in questo senso, è davvero unica. Specificatamente dedicata a diverse forme di violenza contro le donne, è fondata sul punto di vista delle vittime e contiene una gamma completa di strumenti pratici per contribuire a migliorare la risposta di tutti i soggetti coinvolti. Vi si afferma chiaramente che le Parti hanno l’obbligo di prevenire la violenza, proteggere le vittime e punire i colpevoli, e che i provvedimenti a tal fine devono far parte di un insieme di politiche integrate. Questo è fondamentale, perché possiamo sperare di porre fine alla violenza contro le donne solo se gli stereotipi e i ruoli di genere sono decostruiti, gli atteggiamenti cambiati, le leggi modificate, le donne si emancipano e la giustizia diviene accessibile. La Convenzione istituisce anche – elemento decisivo – un meccanismo di controllo specifico al fine di garantire l’effettiva attuazione delle sue disposizioni ad opera delle Parti.

La Convenzione di Istanbul è stata ad oggi ratificata da tredici Stati membri del Consiglio d’Europa[1]. Altri ventitré hanno manifestato la propria volontà politica firmandola. Sono così rimasti undici Stati membri del tutto inerti[2]. Confido che questa importante Convenzione non solo sarà ratificata da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, ma da molti altri paesi del mondo e dall’Unione europea.

Ciò non accrescerà la sicurezza delle donne dall’oggi al domani, ma senz’altro segnerà una svolta nella giusta direzione, inviando un forte segnale d’impegno a milioni di donne.

[1] Albania, Andorra, Austria, Bosnia ed Erzegovina, Danimarca, Francia, Italia, Montenegro, Portogallo, Serbia, Spagna, Svezia e Turchia.

[2] Armenia, Azerbaigian, Bulgaria, Cipro, Estonia, Federazione russa, Irlanda, Lettonia, Liechtenstein, Repubblica ceca e Repubblica di Moldavia.

Strasburgo 29/07/2014
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